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Costituisce reato sottrarre la corrispondenza al coniuge per usarla nella causa di separazione.
La Corte Cassazione, sentenza 585 (4.10.2013 – 09.01.2014) qualifica come reato usare corrispondenza privata in un giudizio di separazione fra coniugi.
Con breve ma interessante motivazione la Suprema Corte (Sezione V Penale pronuncia numero 585 4.10.2013 – 09.01.2014) ritorna sui profili della fattispecie di reato prevista e disciplinata dall'articolo 616 c.p., annullando, per intervenuta prescrizione, la sentenza della Corte Napoletana ma rigettando il ricorso proposto dal coniuge ai fini civili per la riforma della condanna al risarcimento del danno.
In compendio, la Corte, pronunciandosi su questione controversa, non ritiene sussista alcuna scriminante o superiore diritto che possa giuridicamente consentire al coniuge di prendere contezza ovvero semplicemente di distrarre la corrispondenza (nella specie documenti bancari) per utilizzarla come elemento di prova nel giudizio di separazione; in particolare, non sussiste, a parere della Corte, la giusta causa di cui al comma secondo dell'articolo 616 c.p., per il rilievo che la condotta di produzione in giudizio dei documenti non rappresenta l'unico mezzo per contestare le richieste della controparte, potendo il Giudice valersi dei poteri istruttori concessi dall'articolo 210 C.P.C., ordinando alla controparte o a terzi l'esibizione di atti o documenti ritenuti rilevanti per la decisione.
Si tratta di pronuncia che si colloca nel filone più garantista espresso dalla Corte e dalla migliore dottrina e che vede nella tutela della segretezza della corrispondenza, cartacea o informatica, un valore preponderante rispetto al diritto alla prova giudiziaria.
Il caso, tuttavia, deve essere contemplato sotto la luce della sua peculiarità e la pronuncia non va resa comune, generalizzata: il bilanciamento tra il diritto alla prova (e alla difesa) e quello alla segretezza è assai delicato e, come messo in evidenza dalla dottrina, il contemperamento tra le due istanze costituisce valutazione lasciata al Giudice, sull'evidenza della fattispecie emergente.
Fare visita al figlio senza alcun preavviso al di fuori dei giorni e degli orari stabiliti è reato.
Il 19 aprile del 2010 il Tribunale di Genova ha stabilito che costituisce reato il comportamento del padre separato che fa visita al proprio figlio senza fornire alcun preavviso.
Secondo i giudici, infatti, il genitore che si reca presso l'abitazione della propria ex moglie per far visita al figlio al di fuori dei giorni e degli orari prestabiliti in sede di affidamento, commette il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, con riferimento all'art. 388 del codice penale.
Nello specifico, in uno stralcio della sentenza si legge:
"L'uomo non sarebbe potuto entrare nella casa, senza preavviso, e vedere il piccolo, e così facendo egli ha violato il provvedimento giudiziale. Sulla scorta di ciò si ritiene provata la responsabilità dell'imputato in ordine al reato contestato".
Secondo la Cassazione, l'accertamento della violazione dei doveri reciproci dei coniugi non è sufficiente per l'addebito della separazione
In presenza di separazione personale dei coniugi, la Corte di Cassazione ha stabilito che la pronuncia di addebito "non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti dall'art. 143 c.c.".
Le norma, relativa ai diritti e ai doveri reciproci dei coniugi stabilisce, infatti, il dovere alla fedeltà reciproca, di abitazione sotto lo stesso tetto, di mutua assistenza morale e materiale e della relativa contribuzione per la soddisfazioni dei bisogni del nucleo familiare.
Secondo la sentenza n. 16614/2010 della Corte, per motivare l'addebito è necessario accertare se tale violazione, "lungi dall'essere intervenuta quando era già maturata e in conseguenza di una situazione di intollerabilità della convivenza abbia, viceversa, assunto efficacia causale nel determinarsi della crisi del rapporto coniugale". Il cuore del problema, quindi, consiste nell'identificazione delle cause reali che stanno alla base della crisi matrimoniale, la quale potrebbe essersi manifestata anche precedentemente alla violazione di uno o più doveri coniugali.
"L'apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi nel determinarsi della intollerabilità della convivenza - scrive la Corte - è istituzionalmente riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di una motivazione congrua e logica".
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